L’ultimo periodo di attività: 1935-1950

Negli anni Trenta si diffonde il mito dell’aviazione, che sostituirà, almeno in parte, il mito dell’automobile. Il cielo diverrà il nuovo teatro in cui librare i sogni. Anche se già presente nella prima guerra mondiale, ora l’aviazione si perfeziona e si accredita come nuovo mito. Mario Morasso già nel 1907 vedeva il futuro nel segno dell’aeronautica, pensava allo sviluppo delle potenzialità e al fatto che presto, quella dell’aereo, non sarebbe stata più una moda (limitata ad esperienze singolari, ad imprese temerarie, eccentricità acrobatiche) ma sarebbe divenuto sport (come è stato per cicli e automobili) e, a breve, mezzo di trasporto comune.I manifesti che Marcello Dudovich realizza per “La Rinascente”, ma soprattutto l’impresa decorativa che lo vuole a Roma, al Ministero dell’Aeronautica, nel 1932 per affrescare (con la tecnica a tempera) i locali della mensa rendono palese l’evoluzione dell’artista in chiave novecentista.Il gruppo del “Novecento Italiano” raggiunge infatti i risultati migliori in un periodo di tempo compreso tra il 1920 e il 1926, ottenendo un alto grado di perfezione e purificazione. Arrivati a queste date, nella figurazione, il dato naturalistico è ormai usurato e non vi sono alternative; o si sceglie la via della ristrutturazione della figura aderendo al cubismo, oppure si opta per l’economia, la riduzione, la semplificazione aderendo al principio gestaltico della forma. “© 2017 archivio MD”

Dudovich pare optare per una scelta di generativo, di ricostruzione di senso attraverso il supporto del segno. Sceglie colori “magri” e la resa è un po’ approssimativa, nel definitivo si hanno risultati simili all’abbozzo. Nelle sale decorate del Ministero dell’Aeronautica con affreschi giganteggianti su pareti e plafoni il colore non si fa del tutto austero, anche se il cielo è reso mediante un azzurro uniformante, rendendo così stabile la continuità materica dei personaggi protagonisti. Al tempo stesso Dudovich regala un senso di leggerezza e di ventilazione andando ad alleggerire l’intera distesa pitturata. Le note azzurrine evitano di fatto che la schiacciatura spaziale imposta dalla parete dia un senso di angustia. È un colore “debole” rispetto a quelli usati dai contemporanei Sironi e, semmai, più vicino a Carrà: un modo per scaricare in superficie ogni dramma, il tono azzurrino infatti intenso ma non luminoso. Le figure rappresentate non sono ammassate e rispettano una scansione paratattica oppure sono riunite in piccoli gruppi, unificati al resto mediante una tonalità grigia, marrone, da cui emergono solo i profili dei corpi. I colori scelti da Dudovich si adattano bene alla tempera e all’affresco; un modo per sconfiggere ulteriormente ogni tentazione illusionistica e per riportare il racconto alla gioia di una stampa popolare (come avviene nell’essenzialità del fumetto o del cartone animato). Tale tinta, inoltre, ha una ragione anche tematica: si tratta infatti del “Paradiso dei piloti”, scene e motivi celesti, arretrati nel vago tempo dell’aldilà. “© 2017 archivio MD”

Predomina sempre la logica della figura-sfondo: le figure risultano bloccate e scandite con la stessa perentorietà dell’affiche. Rispetto ai ferventi adepti dell’impresa muraria (Sironi, Funi, Oppi) Dudovich non cade nella volgarità e nella pesantezza dell’illusionismo pittorico, dell’effettismo plastico di questi più giovani compagni di strada: il triestino mantiene i tratti distintivi di chi viene da più lontano – e resta più popolare di loro e nello stesso tempo più aristocratico, perché più stilizzato ed elegante. Quanta mobilità è comunque capace di conferire allo sfondo, che pure, in sé e per sé, risulta formato da una liscia parete frontale! Il ricordo analogico dei colori della terra e del cielo può essere interpretato come un atto del cammino verso i primordi essenziali della materia, per cui le varie sostanze vanno rassomigliandosi sempre più tra loro, o per lo meno concentrandosi in poche famiglie fondamentali. Le tinte monocrome creano zone uniformi di colore: sono spazi dilatati, dove tinte brune (non plumbee) richiamano i sintomi di un malessere che pare coinvolgere l’umanità intera. Sono questi gli anni in cui il regime fascista è più opprimente. La politica irrompe nella vita quotidiana con più violenza e anche sulle pagine dei manifesti cominciano ad apparire i primi sintomi di un cambiamento epocale. Sebbene ciò divenga più tangibile nei manifesti strettamente bellici e in quelli del prestito per la ricostruzione, anche nei cartelloni che Marcello Dudovich realizza negli anni Trenta, che reclamizzano i prodotti alla moda (dei coriandoli colorati ormai isolati), si leggono i segni dell’austerità. Prima che i muri che reggono l’affissione dei manifesti vengano rasi al suolo dalle bombe del secondo conflitto mondiale, Dudovich si manterrà comunque il più possibile distaccato dal contesto politico-sociale europeo, evitando il più possibile di prestare la sua opera ai cartelloni di genere e di regime. Egli rinuncia a vendere sangue, eroismo e morte rispecchiando l’intera sua esistenza trascorsa nei migliori luoghi di vita e non di morte. Gli anni del regime saranno anche quelli della sua collaborazione con il feltrino Walter Resentera, prima assistente e poi genero. “© 2017 archivio MD”

La produzione cartellonistica di Dudovich degli anni Quaranta, volendo, si può accostare – attraverso un divertente parallelo coloristico – alle pellicole cinematografiche in bianco e nero, colorate in un secondo tempo. I manifesti hanno colori irreali, con tinte talvolta acide e talvolta eccessive, simili ai ritocchi fotografici. La carica di seduzione necessaria al messaggio pubblicitario, per venire accreditato dai fruitori, che era affidato agli inizi del Novecento alle bellezze muliebri, negli anni del secondo dopoguerra viene demandato ai miti del grande schermo, ai quali poi si affiancheranno i miti della politica-spettacolo: Benito Mussolini o Adolf Hitler. Si riducono i mezzi estetico-stilistici e si amplifica la messa in scena, di tipo rituale: un imperativo del regime. Il fascismo cerca però anche di ricostituire quei valori familiari che l’epoca frivola precedente aveva dissipato. “© 2017 archivio MD”

Anche i manifesti si impegnano a raffigurare modelli positivi da imitare. I comportamenti liberi della belle époque vengono sostituiti dall’istituto familiare: la donna si emancipa, lavora, ma è l’uomo che domina. Durante la parabola fascista e il conseguente ruolo trainante conferito allo sport, si possono notare numerosi cartelloni pubblicitari che raffigurano corpi muscolosi e in tensione, in posa plastica, sono indici della forza e dell’autorità che il regime vuole propagandare. Oppure i manifesti accolgono i nuovi simboli del potere, come l’aquila imperialista ricorrente su alcuni manifesti particolarmente curati nella realizzazione dal Resentera. “© 2017 archivio MD”

Dudovich, stabilitosi definitivamente a Milano dal 1920, compie durante gli anni Trenta due soggiorni in Libia, ospite di una nipote, rispettivamente nel 1936 e nel 1937. Fu invitato probabilmente su interessamento diretto di Italo Balbo per la decorazione di palazzi o di chiese nella colonia africana); il soggiorno è occasione di spunti per una serie di tempere e disegni che costituiranno particolari soggetti di buona fattura e ritratto. Marcello Dudovich collabora alla rivista “Dea”, che si occupa di moda, di cui Boccasile è redattore; tra gli artisti presenti nelle pagine del periodico ci sono anche Brunetta e Sacchetti. Ma l’iconografia che si afferma in questo periodo nasce dalla matita di Boccasile, la sua caratteristica è di rendere il soggetto secondo una prospettiva monoculare. È il corpo di una donna “esplosiva” a tener banco. Il regime si era reso conto di come fosse necessario creare un modello e di come la pubblicità fosse un forte mezzo di propaganda e garanzia di uniformità. Si è dato il via al processo di standardizzazione, di costruzione in serie… così sarà anche nel campo della moda. “© 2017 archivio MD”

Tra Dudovich e Boccasile vi è uno scambio di modelli “a distanza”: dal triestino Boccasile preleva soprattutto per i manifesti il taglio complessivo dell’immagine, la rappresentazione della figura femminile, mentre Dudovich impara a tornire maggiormente, attraverso un chiaroscuro risentito, le sue figure. A partire dal 1940 il manifesto farà pubblicità solo alla guerra, saranno infatti finiti i giorni dell’ottimismo e delle belle donne… Boccasile sarà l’ultima risorsa immaginativa del regime, ma è anche l’ultimo cartellonista italiano nel senso “proprio” del termine, infatti è e sarà l’ultimo dei pittori-cartellonisti. Durante la seconda guerra mondiale Dudovich si sposta a più riprese con la propria famiglia: verso Riccione e sul lago di Varese. Nel 1943 su invito dell’amica Alessadra Drudi (in arte Gea della Garisenda), vedova Borsalino, Dudovich raggiunge nei pressi di San Marino Villa Amalia per realizzare decorazioni e pannelli d’arredo, un luogo caro a Dudovich, che vi spese molti soggiorni in compagnia ; l’ultimo sarà nel 1952. La donna tratteggia un profilo del caro amico ricordandolo come un allegro burlone, ma distinto e gran signore, sempre alla ricerca di effusioni sensuali e di avventure, prodigo nello spendere, ma altrettanto infaticabile nel lavoro. La committenza Drudi aveva lasciato all’artista “carta bianca” sia dal punto di vista del soggetto che della tecnica che dello stile. Pier Giorgio Pasini ci informa che Dudovich pensò dapprima ad una specie di sagra paesana con teatrino, frati, contadini e bestie. “Tre cavalieri al galoppo su un prato verde, sullo sfondo di castelli pittoreschi, in una luce lattea, diffusa. Il medioevo è però ricreato in questa stanza della villa, con una pittura limpida, che interessa tutte e quattro le pareti: è un pretesto che non ambisce ad una fedele ricostruzione storica. Quella di Dudovich è pura leggenda cortese, pura ideazione favolistica depurata da ogni accento drammatico. Dipinge a tempera tre pareti del salone e l’effetto generale, è di quattro padiglioni aperti sull’esterno; un effetto trompe-l’oile dato dalle quinte dei tendaggi e delle bandiere poste sui lati e che introducono lo spettatore nel paesaggio che vi si apre oltre. Vi è stretta affinità tra l’affiche e la tecnica casta, spirituale, dell’affresco. Si tratta in entrambi i casi di manifestazioni “popolari”, fatte per incantare un vasto pubblico, per esercitare su di esso un suadente richiamo didattico. Il ciclo è di evidente ispirazione/suggestione quattrocentesca… “si ha insomma una perfetta coesistenza tra gli aspetti del costume e i “valori” metafisici di un rilievo quattrocentesco, masaccesco, che è poi il fine ambizioso del miglior Novecento…” La ripresa del tema medievale, il recupero di quello stile come rievocazione, cioè come ricostruzione di un ambiente storico, è atto a illustrare e promuovere particolari sentimenti. Vi è quel carattere fittizio, scenografico, di cartapesta (simile agli apparati effimeri creati per le esposizioni internazionali o per il teatro), quell’aria di messinscena per melodrammi che suggerisce la presenza di personaggi in costume, in quanto riferito a una realtà storica. Siamo nella zona geografica che fece da sfondo alla storia tormentata di Paolo e Francesca e qui vi troviamo delle allusioni. Pare essere questa sia una fase storica difficile (seconda guerra mondiale), sia un periodo non troppo felice nella vita dell’artista (ormai in disparte); la decorazione di Villa Amalia può bene figurare come una strategia messa a punto per fuggire dal reale e confinarsi in un mondo favoleggiato, evitando di fare i conti con l’amara realtà. Nel 1945 muore di cancro la moglie dell’artista, Elisa Bucchi e, sebbene non vivessero più sotto lo stesso tetto da tempo, Dudovich la ospitò nella sua casa per curarla. Toccanti le parole di Dudovich a riguardo: “È morta nel 1945, nelle ultime giornate di Milano, di cancro, una lunghissima agonia. Non era più che uno scheletro. Ero come pazzo in quei giorni. Per abituarmi all’idea di avere una morta in casa andavo all’obitorio a vedere i morti che raccoglievano per via e che portavano lì perché i parenti li identificassero.” “© 2017 archivio MD”

In questa nuova era, fatta di poca grazia, priva di quella “atmosfera” tanto cara a Dudovich, egli fatica a sopravvivere esprimendo in un suo scritto:
“Dopo il conflitto, costumi e gusti cambiarono totalmente ed io esplicai la mia attività come pittore, decoratore, ritrattista”. Tra i cartelloni degli anni Cinquanta si annoverano: “La Rinascente” del 1953, dove una donna è sdraiata sulla stella marina – si legge un segno grafico ormai sbrigativo, quasi “tirato via”, privo delle squisitezze formali di un tempo, ma pur capace di dar conto dell’intatta capacità ideativa del Nostro. Così sono anche il famoso “Persil” del 1956. All’alba degli anni Cinquanta il mondo non si può più riflettere nella sua opera. Qualche manifesto Dudovich lo realizza ancora, ma è palese la sua difficoltà nel confrontarsi con i cartellonisti della seconda generazione, ormai denominati “designers”; la pubblicità è ormai una scienza esatta, disciplinata da leggi di mercato. Leggendo i suoi quaderni questo disagio risulta palpabile. In questi anni Dudovich raccoglie le ultime soddisfazioni attraverso i vari riconoscimenti che vengono tributati alla sua opera di cartellonista “storico”. Si organizzano mostre personali a Roma e Milano e gli viene assegnata una medaglia d’oro alla carriera. Dai suoi quaderni: “Ringrazio vivamente i signori della FID, che non solo mi hanno consentito questa sera di risentire il brivido sottile della notorietà (mentre mi credevo un dimenticato) ma hanno voluto addirittura tributarmi una prova concreta della riconoscenza … per quanto io ho fatto per essa [la pubblicità] in questi 50 anni consegnandomi una medaglia d’oro. Medaglia che fregerà il mio petto di vecchio cartellonista.
… Ringrazio Vergani e Villani per questa serata memorabile e per le care parole rivoltemi …
Le feste che mi sono state fatte mi hanno consentito di risentire l’orgoglio di essere stato un cartellonista. Perché quella della Pubblicità è arte necessaria moderna e viva … la più utile … Arte che ha la fortuna di avere per sua palestra le strade e le belle piazze d’Italia, e per spettatore tutto il popolo. A questo popolo, i giovani diano l’ineffabile gioia della bellezza, dell’Arte, noi vecchi abbiamo fatto il nostro dovere. La medaglia lo dimostra.” Nel 1951 lo troviamo nuovamente in Libia: il Circolo degli Italiani rimasti là organizzò una mostra su di lui. Ma l’avvenimento ha un peso pressoché irrilevante. Morì ottantaquattrenne, a Milano, nel 1962. “© 2017 archivio MD”

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